Il discorso d’immagine di Franco Avellino, non teme la rottura con l’approccio formale secondo il metodo “bruneschelliano” che prevede le tre dimensioni tradizionali, proiettate nello spazio del campo visivo, atte a definire una profondità prospettica…egli nuota libero sulla superficie spaziale della tela, dove sembra assente la dimensione orizzontale terrestre…
Franco Avellino, sceglie come punto focale della fuga prospettica, un punto nel cielo, spostando così con determinazione l’occhio dell’anima, dalla dimensione terrestre, al cielo infinito.
In quest’opera l’autore sembra mostrarci una visione rovesciata della realtà, invitandoci quasi a distenderci sul suolo della nuda terra e di là, osservare il mondo sotto un altro aspetto come con occhi nuovi, respirare l’humus che sale dal suolo madre, contemplare la vegetazione che si erge nelle altezze, per catturare vita, acqua, luce.
Dietro la descrizione di quei rami nudi, protesi nel vuoto, tuttavia c’è molto altro…l’artista rivela nei tratti scuri del paesaggio arboreo, il segno violento che fende lo spazio; quei rami sono tagli che la vita gli ha inferto, sono domande che attendono risposta, sono attese che gridano nel silenzio dell’aere, per cercare oltre l’eco un’altra voce.
Franco Avellino ci conduce alla scoperta di una insperata verità, rovesciando la prospettiva cui siamo abituati,quella che parte dall’io al mondo, mentre l’opera descrive uno sforzo corale di un’ umanità in ricerca, che si muove a partire dal noi specie, verso l’intimo di ciascuno…una umanità che volge lo sguardo alla stessa luce e anela della stessa sete.
Il piano scelto è orizzontale, restituisce un fluido emozionale calmo e propositivo, mentre i colori freddi, ancora svelano l’antica ferita, la speranza violata. Una speranza che tuttavia non teme, poiché il respiro è ampio e aperto sulla tela, una speranza che non è senza domani, poiché guarda all’infinito,che non è senza coraggio poiché guarda alle nostre mani, non è senza la forza, poiché ascolta e interpreta la voce degli uomini che sale dalla terra.
Serena Caleca