di Serena Caleca
Passarvi davanti e rimanervi folgorati, con la testa che corre avanti e indietro come uno scanner per fotografare mentalmente ogni particolare e cercare di riordinare le idee o capirci qualcosa…ero io, davanti all’opera imponente di Gino De Dominicis, il giorno di San Valentino, di passaggio alla GNAM per studi sul contemporaneo.
Forse inconscio o forse no, non mi sembrò affatto casuale che fosse San valentino, dal momento in cui la mia attenzione attraversando i corridoi, stava venendo risucchiata, è il termine giusto, con forza, dal mistero magnifico di quei due volti accostati…anzi fusi, in intima unione, nella grande matita dai colori pastello, una delle tecniche preferite dall’artista, nel suo ultimo periodo, e che ora, lì, mi interrogava nel profondo.
Un’esplosione di soavità soprannaturale nell’avvicinarsi lieve e riservato di quelle due anime fluttuanti, forse uno dei punti più alti della sua infaticabile ricerca sul senso della vita nel corpo e della tragica inaccettazione della caducità umana, che aveva tormentato tutta la sua vita, proprio nel punto nodale in cui, nella donazione di sé stessi l’uno verso l’altro degli amanti, tale tragicità si doveva far sentire più dura e pungente, inspiegabile e inaccettabile a causa della pretesa dell’amore, portando il pensiero filosofico del genio al punto di concepirne l’immortalità, come unico punto di fuga proponibile, rappresentata magistralmente dalle fessure degli occhi chiusi sul mondo da parte di entrambi, ma aperti all’infinito cosmico racchiuso nell’anima.
Lo spazio luce quasi timido e leggero dell’opera, mi parlava ora come un libro aperto, vedevo il messaggio iconico delle forme come un racconto sulla Genesi della creazione, rappresentata dal “prima” e dal “dopo” nella linea divisoria, volutamente decentrata rispetto alla dimensione della tavola, e simboleggiata dallo stilo aguzzo che fende la storia, non a caso posto sulla sommità delle dita di lei…la donna.
Lei, intima nella sua inaccessibile ma avvolgente consapevolezza, di essere tutta immersa in un progetto cosmico di conservazione della vita, lei apparsa sulla scena del tempo dopo la lunga elaborazione della creazione di Adamo, che ha investito sulla linea dell’era universale, rappresentato dalla intera superficie dell’opera, la parte più lunga e indefinibile delle origini, che esse stesse si perdono nella notte degli spazi infiniti.
Lei che raggiunge Adamo, quasi alla fine del tempo, eppure lo investe di densità e definizione, ben rappresentata dall’addensarsi del tratto di matita, nel punto di fuga quell’Adamo che come i grandi miti delle culture orientali proviene dall’assoluto e scruta l’assoluto per scoprirne il volto, ma che unicamente alla maniera dei testi mediterranei si sdoppia nella spiritualità della coppia e vede il raggiungersi delle due entità viventi, lei dunque, lo avvolge quasi per dirmi, per dirci, che lì è tutta la vita, che lì si materializza e si fa carne il senso della storia e che lì e solo lì, accade tutto ciò che deve accadere, promesso dalle origini della creazione e caduto ora, nel presente dei secoli ultimi.
Nel crogiuolo impalpabile e soavissimo dell’unione dei respiri, che aleggiando dal cuore d’unione, allo spazio circostante, tutto rende lieve e fluttuante, come se ad essere rappresentato non fosse già più il corpo materiale dei due, ma lo spirito, che pur nel corpo non ha del corpo la definizione e i contorni di massa, ma si contrae e si espande secondo il respiro stesso, simbolo di vita, il biblico “Ruah”, si ravvisa l’ansia dell’umano destino, in bilico fra finitezza e immortalità, segnato nella storia degli uomini da quel punto di separazione sottilissimo, quasi invisibile, che lei…e ancora lei gli mostra sulla punta delle dita, indicando a lui, che l’esistere è una lama di confine il cui fragilissimo equilibrio è nelle nostre mani.
La passionale ferita, ma di una passione che trae come da un pozzo profondo il vortice della sua sussistenza, che lui soffre nel desiderio di fusione con il mistero insostenibile della ragione di lei, lo trasforma e lo placa, sublimando ogni pulsione scomposta e primordiale, e riportando l’irragionevole disordine comportamentale dell’umanità, entro i confini del sublime iniziale ordine creazionale.
Il tratto descrive le figure immateriali, esistenti ma prive della pesantezza della corporeità, questa volta tuttavia, infinitamente dolci, lontane dalle tragiche provocazioni delle opere del primo periodo, che denunciavano l’inesistenza dell’esistenza causata dalla fugacità del tutto; ora osservavo invece il precipitare della migliore offerta della vita, al centro di quell’incontro chiaroscurale addensatosi tra le line delle figure pianeggianti, volutamente non volumetriche, perché già fuori dal corpo e dal tempo.
Mi chiedevo come fosse possibile che nonostante le molte recensioni, studi ed esposizioni dedicate ad un genio inafferrabile come De Dominicis, descritto come un irriverente e indomabile ricercatore del senso della vita e della morte, crudo, a volte atroce nella sua denuncia, nessuno si fosse mai accorto della infinitamente delicata passione che trasuda dai suoi volti misticamente protesi verso l’eternità e sorprendentemente uniti nell’amore…un messaggio biblico e forte come quello del Cantico dei Cantici, ancora una volta rubato ai testi arcaici e alle radici della cultura dell’umanità, ancora una volta proteso verso l’infinito e il superamento della natura corruttibile, in un drammatico e soffocato grido di intercessione per la dignità umana al cospetto del cielo, musa insaziabile, che ha tormentato per una vita intera quest’anima eletta e sofferente.
“…Chi è costei che sorge come l’aurora,
bella come la luna, fulgida come il sole,
terribile come schiere a vessilli spiegati?
…..Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio,
perché forte come la morte è l’amore…
le grandi acque non possono spegnere l’amore
né i fiumi travolgerlo.
(Cantico dei Cantici – Quinto poema)
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